Durante lo scorso week end in giro per l’Italia per attività di mystery shopper, ci ha allarmato il comportamento tenuto da alcuni promoter. Gli episodi sono accaduti in grandi punti vendita in tutta la penisola. Tanto da farci pensare ad una pratica diffusa nei negozi, non riferita ad un particolare brand. Sia chiaro, è la prima volta che notiamo certi comportamenti. E dunque potrebbe trattarsi di semplici coincidenze.
Al nord, alla richiesta di una lavabiancheria, un addetto vendita ci ha accompagnato da una sua “collega” che teneva il badge girato verso il petto, in maniera tale da renderne impossibile l’identificazione. Dall’abbigliamento, e dalla passione con la quale ci spingeva verso un particolare marchio, ci è stato da subito evidente che non fosse una risorsa del negozio. In centro Italia, una promoter con il proprio nome (e quello del brand di riferimento) rigorosamente voltato verso l’interno, aveva addirittura un abbigliamento dello stesso colore della catena, tanto da ingannarci fino alla fine della trattativa. Al sud, infine, siamo stati avvicinati da un promoter che ha cercato in tutti i modi di distoglierci dal marchio al quale avevamo palesemente dichiarato di essere affezionati. Come Benigni nella famosa scenetta de “La vita è bella”, cercava di convincerci a prendere salmone e insalata denigrando gli altri piatti. Il suo badge, neanche a dirlo, era nascosto.
La cosa grave è che in tutti gli episodi i collaboratori di agenzie esterne indossavano laccetti porta-cartellini con il nome del rivenditore, e non dei brand per i quali agivano da promotori. Il sospetto è che giocassero sul fatto di essere scambiati per commessi del negozio. Non abbiamo nulla contro i promoter, anzi siamo assolutamente convinti dell’utilità di ogni ausilio alla vendita, soprattutto quando parliamo di grandi superfici, difficili da presidiare con i pochi venditori a disposizione. Tuttavia questa attività va fatta con trasparenza. Da entrambe le parti, promoter e negozio.
Da un addetto vendita ci si può aspettare di essere spinti tra le braccia di un promotore, ma solo dopo che avremo apertamente espresso la nostra preferenza per il brand. E facendolo, crediamo abbia il dovere di avvertire il consumatore. È più che logico, infatti, che il giudizio del promoter sarà di parte. Tuttavia se ciò contribuirà a consolidare la scelta del consumatore sarà un punto a suo favore.
Dal punto di vista del promoter, invece, egli deve sapere quando è il caso di cessare il braccio di ferro con il visitatore. Portarlo a forza su brand non graditi non è bene per nessuno. Il marchio verso il quale trascina l’acquirente perde di credibilità, il cliente non sarà soddisfatto dell’esperienza di acquisto e il punto vendita verrà ricordato come quel luogo in cui è stato forzato nella scelta.
Il consumatore finale ha il diritto di sapere con chi sta parlando, perché entrando nel punto vendita egli ripone le sue aspettative nelle persone con cui entra in contatto, cercando un suggerimento imparziale che prenda in considerazione le sue esigenze. Altrimenti avrebbe acquistato on-line, dopo aver letto qualche recensione. Essere un promoter significa individuare il prodotto adeguato ai bisogni dell’utente, esaltando i pregi del proprio marchio di riferimento, senza ricorrere a sotterfugi come screditare la concorrenza o camuffarsi da commesso. Il rapporto di fiducia con il cliente inizia con il primo contatto. Se vogliamo che resti duraturo dobbiamo essere chiari fin da subito.