Quando ci capita di venire a contatto con aziende, quasi sempre multinazionali, intenzionate a entrare nel mercato retail italiano che abbiano in portafoglio più di un marchio, c’è un ritornello che risuona con frequenza preoccupante. In pratica, il ragionamento suona più o meno così. “Ci potremmo giocare il nostro brand più prestigioso e più noto, oltre quello di qualità più alta. Ma il retail è da tempo avvitato in una concorrenza al ribasso, dei prezzi e quindi della qualità, che se decidessimo di lanciare il nostro marchio premium rischieremmo un salasso letale. Allora è meglio utilizzare un brand di fascia medio-bassa”. Ovviamente abbiamo sintetizzato e non stiamo dicendo che tutte le aziende ragionino così. Però la tendenza c’è, e neppure da oggi.
Se passasse l’idea (noi vorremmo tanto definire pregiudizio) che il settore eldom di casa nostra offra prodotti in maggioranza non eccelsi, significherebbe almeno due cose. Intanto che questo settore sta giocando contro se stesso portando acqua al mulino delle aziende e-commerce pure. Con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. E se poi aggiungessimo che la galassia del servizio resta ancora distante anni luce, allora la frittata sarebbe già scodellata nel piatto. Ma oltre a questo, va messo in luce un paradosso. Esiste un mondo, poco conosciuto, fatto di piccoli e medi rivenditori che hanno costruito le loro aziende su superfici di vendita piccole e medie. Quelle che oggi detengono le maggiori possibilità di restare nel mercato. Un mondo che ha bisogno come l’aria di qualità: di aziende di qualità e di prodotti di qualità. Ne ha bisogno per mantenere inalterato il rapporto di fiducia con i consumatori; per marcare la differenza rispetto alla palude dei volantini; per difendere i propri conti economici. In questo mercato c’è ancora voglia di vendere qualità perché è l’unico modo per mantenere le aziende solide. Ma vendere qualità è impresa dura, se non durissima. Ma è nulla rispetto alle conseguenze di rovinare il rapporto di fiducia con i consumatori.