Lunedì, 26 Marzo 2018 11:27

Colloquio di lavoro e selezione naturale

Ormai molte aziende chiedono la “disponibilità a muoversi all’interno d un contesto dinamico”. Tradotto: ti vuoi spostare a centinaia di chilometri di distanza?

Cosa saremmo disposti a fare se un giorno perdessimo il nostro posto di lavoro? Probabilmente manderemmo curricula a tappeto per cercarne al più presto un altro, ognuno in base alle proprie inclinazioni ed esperienze, confidando di ottenere l’ormai raro colloquio. Chi ha avuto modo di sostenerne uno nell’ultimo decennio si è sicuramente accorto che ormai ogni azienda richiede come requisito essenziale la disponibilità a trasferte, quando non trasferimenti, su tutto il territorio nazionale, per lo meno durante il primo anno di assunzione. E’ una prassi diffusa all’interno della GDO, determinata dalla consistente offerta di manodopera in confronto ad una domanda piuttosto esigua. Se si cerca un neolaureato in fisica quantistica che conosca perfettamente il cinese mandarino ovviamente non si può andare tanto per il sottile, ma quando non si può effettuare una scrematura sulla base dei titoli di studio e dell’esperienza, allora si punta sulla trasversalità della risorsa e la sua propensione all’adattamento.

Alcune insegne specificano la cosa già nell’annuncio, altre lo mascherano con parole ambigue come “disponibilità a muoversi all’interno di un contesto dinamico”, ma alla fine vogliono semplicemente vedere se siamo realmente interessati a quel posto di lavoro, tanto da dedicare un anno e più della nostra vita a centinaia di chilometri da casa nostra per imparare un mestiere che, molto probabilmente, avremmo appreso ugualmente nella nostra città di residenza. Qual è l’enorme vantaggio che si ottiene in questo modo durante la selezione del personale? Per prima cosa non ci si deve fidare ciecamente di ciò che dice il candidato, dato che potrebbe vendersi benissimo come “proattivo" e capace di adattarsi alle difficoltà, ma vacillare appena gli viene proposto di andare a 200 km da casa. Come seconda motivazione possiamo immaginare che lontano da casa, e con l’unico compito della formazione, il personale selezionato rovescerà tutto il proprio impegno sul posto di lavoro, senza distrazioni. Evidentemente questa sorta di selezione naturale funziona, sia in fase di colloquio, sia in fase di formazione, altrimenti non verrebbe adottata dalla maggioranza delle imprese alla ricerca di figure medio-alte.

Per quanto riguarda la retribuzione, sono lontani quei momenti in cui veniva offerto un ‘quid’ in più rispetto alla R.A.L. attuale per strappare la preziosa risorsa all’azienda concorrente. Forse questo succede ancora per i grandi manager, ma non per i ‘comuni mortali’. E non illudiamoci del fatto che nell’era di Linkedin tutte le figure richieste abbiano il suffisso ‘manager’. Account manager, store manager, senior assistant sales manager, e via dicendo. Ormai il titolo ‘manager’ non si nega più a nessuno, ma non basta per ottenere un aumento di retribuzione cambiando impiego. Ormai si punta sulla valutazione di quanto interesse abbia il candidato nei confronti dell’azienda selezionatrice, e uno dei modi per capirlo è anche quello di offrire lo stesso inquadramento con la stessa retribuzione, quando non inferiore.

Il colloquio è un po’ come il primo appuntamento tra due persone che provano dell’interesse reciproco: entrambi danno il meglio di sé e mostrano i loro punti di forza. Poi, quando ci si fidanza, si cerca sempre di stupire il partner per conservare vivo il rapporto. Quando si è in azienda da parecchi anni, infine, ci possono essere delle incomprensioni reciproche, dei litigi, ma dopotutto non si butta via un percorso che ci ha portati a costruire tanto assieme, se non per ragioni drastiche. Cambiare azienda è un po’ come trovarsi l’amante. Si può essere spinti da un rapporto ormai logoro, nel quale entrambi i partner ormai non hanno più nulla da offrirsi, oppure da una drastica decisione unilaterale: l’azienda non intende più avvalersi del nostro contributo.

Tuttavia, ammesso che non abbiate già valutato di cambiare mestiere, cosa ci trattiene ancora nel nostro posto? Se siamo dei partner fedeli, che vanno al lavoro ogni giorno col sorriso sulle labbra, che amano ciò che fanno e che lo hanno scelto, come mai allora non diamo più il massimo, come i primi tempi? Come quei mesi dopo il primo appuntamento? Assurdo, no? Saremmo disposti a lavorare 12 ore al giorno a chilometri di distanza da casa nostra per qualcuno che nemmeno ci conosce, ma siamo ormai spinti dalla routine quotidiana a fare sempre le stesse cose per chi ci ha assunto anni fa.

Come nel caso di un rapporto di coppia, la colpa è di entrambi. Da una parte il basso turn-over, le professionalità azzerate, la crescita inesistente, fanno perdere ai collaboratori l’entusiasmo e l’energia che avevano un tempo. Dall’altra le aziende chiedono una trasversalità e una elasticità che possono trovare, purtroppo, solo durante le selezioni di nuovo personale. Come nelle crisi matrimoniali, anche durante le crisi aziendali bisogna fare un’analisi di costi-benefici: cosa mi offre ogni giorno l’insegna per cui lavoro? Troverei lo stesso trattamento guardandomi attorno? Andrei a stare meglio? O, come nel caso dell’amante, alla fine troverei gli stessi problemi di oggi quando subentrerà la monotonia? Sono domande da farsi, oggi, per non pentirsene domani. E sono domande che anche l’impresa deve porsi: valorizzare i dipendenti che mi hanno sempre dimostrato fedeltà, nella buona e nella cattiva sorte? Magari proponendo loro una crescita, un contratto diverso, un semplice attestato di stima? O lasciare che se ne vadano da casa, per poi credere a quello che ci viene a raccontare il primo entusiastico giovanotto in fase di colloquio?

Giovane Marmotta