C’erano una volta, tanto tempo fa, il turnover e la crescita professionale. Questi due elementi andavano a braccetto, accompagnando le ambizioni lavorative di ogni collaboratore. Si poteva sperare di ricoprire un ruolo superiore per trasferimento, pensionamento o promozione del nostro capo. Oppure realizzarci con nuovi stimoli e nuove avventure lavorative andando a lavorare per una nuova realtà in crescita, o in un punto vendita di nuova apertura. Da semplice addetto vendita si aspirava a diventare capo reparto, poi capo settore, i più ambiziosi e preparati potevano ambire alla carica di store manager e così via. Paragonando i piccoli gruppi lavorativi a una band musicale, potremmo dire che in molti volevano diventare il nuovo Freddie Mercury, i più modesti avrebbero suonato nel ruolo di Brian May, chi proprio si accontentava avrebbe ricevuto le bacchette di Roger Taylor.
L’ambizione, il desiderio vivo di aspirazione a qualcosa, è insita nell’animo umano ed è quella che una volta muoveva il dipendente a ricoprire il ruolo superiore. Per raggiungerlo era disposto a impegnarsi per apprendere cose nuove, avventurarsi in nuove esperienze. Era stimolato a lavorare di più e meglio. Ad oggi l’unica speranza di sostituire il nostro diretto superiore è il pensionamento dello stesso (sempre più lontano) o il decesso per cause naturali.
Bisogna fare i conti anche con il cosiddetto effetto Golem: se i nostri superiori e colleghi ci considerano una schiappa, a lungo andare siamo portati a dare sempre meno. Basse aspettative innescano una spirale di bassa autostima, e a nulla vale sforzarsi di più, dato che più compiti si svolgono e più errori si commettono, ma nel caso del Golem saranno solo questi ultimi ad essere presi in considerazione.
Poniamo, ad esempio, che un collaboratore debba preparare il volantino del giorno successivo: decine di prezzi da fare, prodotti da esporre, gente da servire. Questo dipendente dimentica di esporre due prodotti e di fare tre cartellini prezzo. Nel caso in cui il suo diretto superiore abbia già una scarsa stima nei suoi confronti, la reazione a queste mancanze sarà esagerata, e sicuramente dettata più dalla bassa considerazione del dipendente che dalla gravità del fatto. Fino a che il lavoratore, ormai consapevole dell’immagine che il capo si è fatto di lui, sarà portato a dare il minimo indispensabile. Perdendo ogni traccia di autostima.
Più famoso del Golem è l’effetto Pigmalione: un’alta considerazione del dipendente migliora sia il suo apprendimento, sia la leadership del suo superiore. Il lavoratore accresce la propria autostima e le prestazioni, e fa di tutto per confermare le aspettative del proprio superiore. E quest’ultimo migliora la qualità del proprio operato per essere d’esempio. Ci sono stati numerosi esperimenti per testare la validità di questo effetto, uno di questi è definito “il miracolo di Sweeney”.
James Sweeney era docente di psicologia alla Tulane University, in Louisiana (USA). Egli prese un custode semi-analfabeta che lavorava all’università e decise di farlo diventare un esperto di computer. Sweeney motivava continuamente il proprio pupillo, ripetendogli “I believe in you”, Io credo in te. Il custode al mattino studiava, la sera spazzava i pavimenti. Nel giro di sei mesi il bidello divenne assistente operatore al centro di calcolo, e successivamente responsabile di tutti i programmatori.
Cosa succede oggi nelle nostre aziende? Nessun leader adotta più l’effetto Pigmalione, dato che consideriamo inutile investire nella formazione di un collaboratore, se non ci sono più sbocchi professionali. A che pro riconoscere che un individuo può incrementare le proprie performance, se è relegato nel suo ruolo? Perché dare fiducia allo staff e dare riscontri positivi, se non è più possibile salire i gradini della gerarchia aziendale? In quale maniera incoraggiare i lavoratori a svolgere le proprie mansioni nel modo migliore, dato che non c’è possibilità di crescita? Non ci fa più sorridere nemmeno il principio di Peter, secondo il quale ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza, dato che non c’è più alcun gradino da salire.
Ma allora cosa possiamo fare, oggi, per stimolare la forza vendita a dare quel qualcosa in più per distinguersi? A mettere l’anima in ciò che fanno, e migliorare sempre se stessi? Forse bisognerebbe tornare a parlare di aspirazioni personali, di motivazione, e assicurarsi che i leader dei punti vendita non abbiano perso fiducia in se stessi e in quelli che li circondano. Ha senso insegnare, valorizzare e formare un collaboratore per un ruolo che, con buona pace delle sue ambizioni, non sarà mai incaricato di svolgere? Noi diciamo di sì. Deve essere così.
Giovane Marmotta