Venerdì, 30 Novembre 2018 16:48

“Oggi nei negozi riusciamo a fare più cose di prima, ma molto meno bene”

Edgar, già comparso sul nostro sito, è lo pseudonimo di un altro professionista delle vendite che collabora con noi. Non è detto che esprima posizioni coincidenti sempre al cento per cento con quelle della testata. Ma le riteniamo comunque interessanti.

Il futuro dei negozi delle grandi catene è sempre più black, nero. Quando queste righe verranno (eventualmente) lette sarà appena passato l’uragano Black Friday, quell’attesissima festività che partita come un week end adesso ha già raggiunto la settimana, e verrà presto promossa a Black November. Passata la mattanza, pare di vederli quadri, capi area e tutta la corte brindare con furore ai numeri strabilianti, intonando – manco a dirlo - “we are the champions”. Un’immagine sinistra, come cacciatori radunati in trionfo dopo aver abbattuto l’ultimo elefante rimasto sulla Terra, che porta con sé qualcosa di funesto, di terrificante.

Terrificante nell’evidenziare un ribaltamento dei ruoli nell’equilibrio tra consumatori e mercato, un’entità quest’ultima metafisica, potentissima e intoccabile che oggi più che mai pare in grado di plasmare usi e consumi degli utenti finali con l’aiuto dei suoi araldi apocalittici: Black Friday, Sottocosto, Doppi Saldi e Il secondo non lo paghi. Terrificante nel portare allo scoperto un numero incredibile di collaboratori di lavoro, disposti per paura (o mancanza) di un proprio pensiero a giustificare quel modello di consumo e i suoi agghiaccianti sottoprodotti lavorativi: turni con pause di durata indefinita, flessibilità e disponibilità assolute e sottintese, il sempre più sfacciato e ricattatorio assalto alla sfera privata con mail e chat di gruppo, sorta di reperibilità gratuita pro patria (sulla quale presto o tardi qualche sentenza metterà una volta per tutte la parola FINE). Terrificante perché dimostra come una grandissima parte dei consumatori accetti di buon grado di sottomettersi – come cani di Pavlov - a tale pratica, assuefatta com’è a richiami pubblicitari capaci di trasformare gli acquirenti (e a ruota i lavoratori del settore) in creature stressate e nevrasteniche. Per fortuna ogni tanto è possibile imbattersi in sacche di resistenza: quegli avventori dall’acquisto consapevole poco entusiasti all’idea di essere trattati alla stregua di automi programmati per comprare a comando, e che oggi sono più a rischio estinzione di un branco di Licaoni.

Questo d’altronde rappresenta il rovescio della medaglia di ciò che avviene all’interno delle grandi catene, dove il primo pensiero di direttori e responsabili anziché essere l’avvento di un modello di commercio sano è quello di “vincere” a ogni costo spezzando le reni alla concorrenza, a volte persino ai punti vendita appartenenti alla stessa insegna. Sarebbe facile a questo punto vedere nel fantomatico weekend l’occasione per “elevare” la vendita; traduzione: alzare la battuta media dello scontrino. C’è da dire che ammaliare il cliente con una promozione a base di sconti “pazzi” per poi tramortirlo con garanzie, installazioni e tutto il corollario denoterebbe quantomeno una sottile incoerenza da parte del venditore, e potrebbe indispettire più di una persona. Come a dire, se vuoi il Black Friday te lo faccio (letteralmente) pagare. Senza contare che all’atto pratico questo vorrebbe dire dedicare almeno (e sottolineo almeno) 5 minuti in più a cliente – compito potenzialmente letale quando hai un’orda incombente da gestire – col rischio più che concreto di fare un buco nell’acqua, e chiunque non abbia la testa nascosta al caldo nella sabbia sa che l’organico nei negozi oggigiorno è ridotto ai minimi storici. E’ davvero questo il salto di qualità che vogliono gli store manager o semplicemente è l’ennesimo cappello da asino da calare sulla testa dell’addetto che deve vendere tutto eccetto quello di cui il cliente ha bisogno? Tenendo conto del fatto che ormai il Black Friday arriva ogni mese dell’anno, questa argomentazione non può che fare acqua da tutte le parti.

Qualcuno ha affermato: “I negozi sopravviveranno”; è una frase concreta e di speranza, rappresenta quello che tutti gli operatori chiaramente si augurano, ma di solito la sentiamo in bocca a chi i negozi è abituato a vederli con il cannocchiale e non li vive in prima persona. L’assunto si potrebbe riformulare in questo modo: “I negozi sopravviverebbero” se i vari think tank dei tuttologi bocconiani di GDO e GDS, quelli insomma con la “visione”, la smettessero di nascondersi dietro la foglia di fico dell’online (la nascita delle maggiori realtà di oggi risale oramai a metà anni ’90, non è roba capitata l’altro ieri all’improvviso), scendessero un po' dalla cattedra e facessero un bel bagno di umiltà, calandosi nei panni non solo dei clienti, ma in primis dei loro collaboratori, troppo facilmente tacciati di inefficienza grazie a procedure e strumenti scelti che all’alba del 2019 hanno spesso del demenziale. Come se il team di Alonso lo accusasse di aver fatto un giro lento alla guida di un trattore con le gomme bucate. Le soluzioni necessarie e già tecnicamente fattibili 10 anni fa non possono essere quelle di oggi, e le soluzioni necessarie oggi non possono arrivare tra 10 anni. D’altro canto è molto più indolore scaricare tutto sulla forza lavoro (addetti vendita, impiegati, scaffalisti) con la moltiplicazione, anzi la multiplicazione delle responsabilità: multicanale, multiservice, multitasking. Che poi significa fare più cose di prima, e forse molte più cose, ma molto meno bene di prima.

Edgar