Domenica, 11 Ottobre 2020 12:30

“Lo shop-in-shop danneggia il ruolo del retail”

La sfida per l’insegna, invece, è costruire una propria identità di marca, mettendo le basi per una vera fedeltà ad essa, in un mondo multicanale e multi-experience. Contributo di Marco Merolla, esperto di marketing strategico.

Lo shop-in-shop, nelle sue varie declinazioni, è una formula che ha conosciuto alterne fortune nel corso degli anni, passando da autentico sconosciuto a moda del momento, per poi perdere estimatori salvo poi tornare in auge al momento giusto. La scelta di agire in questa direzione provoca effetti profondi sull’esposizione o sulla gestione stessa di una punto vendita a seconda della modalità con cui lo shop-in-shop viene tradotto in pratica.

Lo shop-in-shop puro prevede l’organizzazione degli spazi in negozio sulla base di mini store di “brand” che attrezzano l’area espositiva e assumono la gestione della cassa e del personale. Viene di fatto affittato uno spazio con conseguente ricavo per l’insegna derivante soltanto dall’affitto in sé o da una percentuale sul fatturato sviluppato oppure da una combinazione affitto-fatturato.

Queste caratteristiche differenziano lo shop-in-shop puro dalle semplici aree espositive brandizzate. In quest’ultimo caso infatti l’insegna retail decide di esporre parte del proprio assortimento per brand, chiedendo all’industria di investire nell’allestimento di aree espositive all’interno del proprio punto vendita. La cassa e il personale rimangono sotto il controllo dell’insegna pur se spesso coadiuvata da promoter del brand. Questa soluzione spinge i brand dell’industria a investire in modo consistente attratti dall’opportunità di scaricare al meglio il proprio story telling nell’ultimo miglio. Per il retail può funzionare sopratutto laddove la metratura del negozio risulti eccessiva rispetto a una gestione oculata dell’assortimento. L’esperienza di acquisto del consumatore finale spesso ne risulta penalizzata essendo difficile per il personale di vendita sdoppiarsi tra “corsia” e area espositiva, con quest’ultima che al primo cambio di management del brand rischia di trasformarsi in una cattedrale nel deserto.
Completa la panoramica dello shop-in-shop il cosiddetto contratto di agenzia con cui il retailer agisce soltanto da organizzatore e prestatore di uno spazio e dei servizi ad esso associati (personale di vendita, pulizia, real estate). I prodotti non vengono mai ceduti dall’industria al retailer ma venduti e spediti da essa direttamente al consumatore. Il retailer non fa magazzino e incassa una percentuale sulla vendita.

Diversamente dalle aree espositive lo “shop in shop” puro, e ancora di più “l’agenzia”, implicano un cambiamento radicale del mestiere stesso del retailer e nello stesso business model, che di fatto non consiste più nel selezionare un assortimento tra le tante opzioni di marca disponibili, raccontarlo e venderlo al consumatore finale.

Personalmente credo che sia raccomandabile un mantenimento della barra sul ruolo storico del retail che non preveda come core business nessuna delle formule precedenti. Formule che potrebbero in maniera ibrida essere adottate soltanto in casi espositivi specifici (un punto vendita particolare per dimensioni e posizioni, oppure un piccolo pdv che mediante “l’agenzia” potrebbe trattare un brand molto premium in una categoria “pesante”).

Il motivo per cui credo che la strada maestra resti quella del ruolo storico del reatiler va identificato prevalentemente nell’osservazione dei principali trend in corso e quindi nel conseguente sguardo al futuro che se ne può trarre. In particolare credo ci siano tra i tanti fenomeni attuali, di cui ho già diffusamente parlato in questo spazio, due elementi che toccano da vicino il tema in questione:

1. Consumerization: vale a dire la tendenza per cui i brand dell’industria facilitati dalla digitalizzazione crescente e dal boom dell’ecommerce provano ad andare sempre più direttamente verso il consumatore finale. Fatale sarebbe pensare che le mosse fatte in questa direzione erano e saranno solo figlie dell’emergenza pandemica: basta guardare i nomi contenuti nel recente rapporto di Corriere Economia e Statista sui migliori siti ecommerce in generale e durante il lockdown, oppure ricordarsi di acquisizioni recenti come quella fatta dal Gruppo Campari a proposito dell’ecommerce di vini Tannico.
2. La crescita forte dei marketplace e in generale di tutti quei meccanismi che alimentati da un modello “platform” non fanno altro che creare l’infrastruttura dove un acquirente e un venditore si possano incontrare più facilmente ed effettuare una transazione da cui il marketplace ottiene una percentuale.

Niente di nuovo: il marketplace esiste di fatto dai tempi del bazar, ma l’infrastruttura digitale a piattaforma consente oggi al marketplace digitale di non essere più un mero gestore di spazi bensì di conseguire un ben più importante guadagno mediante il totale controllo dei dati del consumatore e della transazione in generale. Cosa che conferisce un incredibile vantaggio competitivo nel momento in cui il marketplace si mette a fare anche il retail.

In un contesto del genere io credo che lo shop-in-shop e l’agenzia siano tutte tentazioni di breve termine da cui è necessario sottrarsi: è necessario non foraggiare formule che incentivano una relazione troppo diretta tra l’industria e il consumatore.

Oggi più che mai la sfida di un retailer deve essere a mio parere tutta basata sulla costruzione della propria identità di marca e fedeltà ad essa in un mondo multicanale e multi-experience. Adeguando business model e value chain a tale contesto e gestendo la relazione con il consumatore orientata a una sempre maggiore acquisizione di dati (funzionali a migliorare la stessa relazione).  In questa cornice l’unica deviazione sensata appare quella del marketplace digitale in quanto migliora la relazione con il cliente finale, ma sempre affiancato da un retailing puro. Non mi sembra invece che la versione fisica del marketplace sia in grado di conseguire lo stesso obiettivo.

Non a caso Walmart da sempre molto all’avanguardia e faro per tutti coloro che cercano di darsi una più forte connotazione anti-Amazon, dopo avere potenziato la sua omnicanalità creando una potente infrastruttura online ma continuando ad investire nei suoi punti vendita, ha recentemente iniziato a sviluppare il proprio marketplace.

Marco Merolla