Domenica, 30 Gennaio 2022 10:27

“La commessa? Va bene per le lavatrici, ma non per i tv”. Pregiudizi e ipocrisie di genere in negozio

Il nostro Nathan prende spunto dall’esito della corsa al Quirinale per guardare cosa accade nel mondo del commercio.

Durante questa settimana abbiamo assistito al (goffo) tentativo della politica di salvare la faccia nel mostrare di volere a tutti i costi insediare il primo Presidente della Repubblica donna nella storia d’Italia. Anche questa volta sarà per la prossima volta. Strano che, pur essendo statisticamente più numerose degli uomini, non si sia trovata una donna all’altezza, ma d’altronde, quando si ignora la figura femminile da generazioni, suona sfacciatamente ipocrita lo sforzo di eleggerne una a Presidente solo perché “sarebbe ora”.

Lontano dal Colle, anche nei nostri negozi assistiamo a messe in scena simili quando si tratta di assumere o promuovere un nuovo store manager o un capo settore. L’idea di far ricadere la scelta su una donna affascina perché suona tanto fuori dagli schemi, ma quale – tra le risorse a disposizione – è stata presa in considerazione in passato per essere formata adeguatamente? Se ci facciamo caso, le uniche manager che abbiamo a disposizione nei negozi sono cresciute nel “bianco”. Questo la dice lunga sulle distinzioni di genere che vengono fatte nell’elettronica: la donna viene vista come responsabile di lavatrici e aspirapolvere, più difficile immaginarla come capo settore del “bruno”. Quasi impossibile vederla come direttrice di un punto vendita.

Spesso, i primi a nutrire profondi pregiudizi sono gli stessi clienti. In base al tipo di prodotto che intendono acquistare, i consumatori si rivolgono con più naturalezza al commesso o alla commessa. Se si tratta di un asciugacapelli o un ferro da stiro cercheranno la prima figura femminile disponibile, a costo di passare di fianco a due o tre addetti vendita maschi. Se, invece, si tratta di un televisore o un computer, si assisterà alla scena inversa: il visitatore ignorerà tutte le donne nel raggio di centinaia di metri, a costo di andare a scovare un commesso nel parcheggio.

Per dimostrare di avere le capacità di vendere il prodotto che “non si addice” al gentil sesso, la venditrice deve avere competenze esageratamente superiori a quelle che dovrebbe dimostrare il suo collega uomo. E deve tirarle fuori dal cilindro in fretta, per non perdere di credibilità nei confronti del cliente. Questo porta a far sì che le donne nell’elettronica siano, solitamente, più preparate dei loro colleghi uomini.
Il fatto di tenerle in un angolo, senza formarle adeguatamente o dare loro sbocchi di crescita, è una “tradizione” da ribaltare al più presto. Se una risorsa merita di crescere le si devono fornire tutti gli strumenti necessari per l’apprendimento e l’incremento delle potenzialità. Questo indipendentemente dal sesso. Per non parlare poi dei “modi di dire” di cattivo gusto che sono uno specchio della nostra società. Se un uomo è particolarmente nervoso “ha il ciclo”, se una donna è autorevole “ha gli attributi”.

Pare che la misoginia sia così ben radicata nella nostra corteccia prefrontale che si rischia di stonare anche quando si cerca di tessere le lodi del genere femminile. Ho sentito frasi aberranti negli anni: “Una donna è più capace perché già nella vita quotidiana gestisce i figli e la casa quindi è ‘multi-tasking’, riuscirà benissimo nel compito di coordinare il reparto” (ovviamente piccoli e grandi elettrodomestici). Oppure: “In quanto donna, ha una sensibilità superiore, sarà sicuramente più attenta alle esigenze di tutti”. In realtà ho conosciuto padri che si barcamenano tra figli da andare a prendere a scuola, spesa al supermercato e cena da preparare, e donne che hanno la sensibilità di un paracarro. Generalizzare non porta a giuste conclusioni.

Quando si cerca di tarpare le ali ad una risorsa femminile che ha delle potenzialità, invece, l’ipocrisia più spudorata è che lo si fa per “proteggerla”. “Avrà l’autorevolezza necessaria? E l’attitudine al comando? Saprà non farsi mettere i piedi in testa?”. Questo (falso) istinto di protezione nei confronti della piccola e indifesa figura femminile è una maniera subdola per dire che la commessa va bene per fare la commessa. Il meccanismo di valutazione estremamente scrupoloso (e di parte) viene messo in moto solo quando si parla di una donna. Il superiore (uomo, ça va sans dire) si pone tutta una serie di domande che non si sarebbe posto per un dipendente maschio, la cui risposta è che forse sia più sicuro lasciare l’addetta vendite lì dov’è.

Tutte le colleghe che conosco sanno benissimo difendersi da sole. Anzi, molte sono in grado di “mettere in riga” parecchi maschietti più facilmente di un uomo. Secondo me, tutta questa paura di far crescere una figura femminile è la paura ancestrale della “maestra” che divideva i compagni che ridevano troppo. Un “capo donna” indebolirebbe i legami che si possono creare solo tra veri compagnoni, favorirebbe la crescita delle “sue simili”, istituendo un matriarcato. Sarebbe la fine del mondo così come lo conosciamo.

Per questa paura, abbiamo rinunciato a potenzialità che si sono formate (per forza o per volontà) in persone costrette fin dal primo giorno di assunzione a combattere contro pregiudizi e ipocrisie. Ragazze che hanno dovuto impegnarsi e imparare al di sopra della media per dimostrare di avere le giuste capacità. Se non apriamo le porte della crescita alle donne di oggi, sarà poi un’ardua impresa dover scegliere dal paniere una donna manager nel futuro.

Per fortuna, tra sette anni non sarà nostro l’arduo compito di pensare ad una “Presidente donna”, ma se vogliamo cambiare il nostro piccolo mondo iniziamo fin d’ora a fare il semplice esercizio di guardare la nostra collega con occhi diversi e poniamoci questa domanda: “Sarebbe ancora qui se fosse un uomo? O ricoprirebbe già un ruolo di responsabilità? Non sarebbe ora di inserirla in un percorso di crescita?”. E diamoci – onestamente - una risposta.

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