Ha senso porsi interrogativi, ora, su ciò che potrà diventare la politica commerciale di Unieuro quando il tricolore transalpino di Fnac-Darty garrirà sui tetti della sede romagnola dell’insegna che “batte forte sempre?”. Qualche ragionamento si può tentare. Al di là degli aspetti finanziari, nei quali non scendiamo e dando per scontato che l’operazione verrà portata a termine con successo, due sembrano essere gli obiettivi di fondo. Il primo è aumentare la pressione sui fornitori. E su questo fronte, nulla di nuovo sotto il sole. Rientra nel tradizionale gioco delle parti, vecchio ormai di qualche decennio. Solo che nel mercato di oggi e in quello dell’imminente futuro il ruolo dei fornitori - o almeno di alcuni leader - nella relazione diretta con i consumatori vanta un peso specifico in crescita. E questa è una variabile che di tradizionale non ha nulla, essendo un fenomeno tutto sommato ancora nuovo e dunque inesplorato.
Il secondo obiettivo, peraltro sottolineato da diversi osservatori, è che l’operazione guarda di fatto a un solo concorrente, che di nome fa Amazon. E allora se il concorrente di riferimento è il gigante di Seattle, ci risulta difficile pensare che la pressione sui prezzi possa rallentare. Anzi è più probabile che acceleri, oltre agli investimenti necessari in termini di servizio. In questa cornice per Fnac-Darty i 400 e oltre punti vendita in pancia a Unieuro quale valore hanno? Sono tanti o sono pochi? A nostro avviso sono troppi, per di più in un contesto di mercato dove i 1000-1200 mq cominciano a rivelarsi addirittura eccessivi, come ci faceva notare solo un paio di giorni fa un importante operatore del retail. Nell’ingranaggio appena descritto - un ingranaggio mastodontico che va a interessare diversi paesi europei toccando i 10 miliardi di euro di fatturato all’anno - gli affiliati di Unieuro assumono (e ci auguriamo di sbagliare) sempre di più le sembianze degli agnelli sacrificali. Magari non quelli più strutturati, che potrebbero intravedere nell’operazione Darty una occasione di sviluppo. Tutta da verificare, sia chiaro. Ma gli affiliati a dimensione familiare corrono i rischi più alti.
Resta il capitolo dei concorrenti tradizionali italiani di Unieuro, vale a dire le organizzazioni distributive. Nel loro caso vale il discorso di sempre, ossia che a nostro avviso la strategia debba restare quella di marcare la distanza da colossi ancora più colossi come Unieuro. Quando a menare le danze era Pierluigi Bernasconi alla guida della prima Mediaworld scrivevamo di non farsi ubriacare dalle note del pifferaio magico, perché quelle stesse organizzazioni sarebbero state trascinate su terreni che non erano i loro; stessa cosa quando a suonare il piffero è andato Unieuro; oggi non cambiamo opinione. La forza delle organizzazioni distributive è il loro radicamento sul territorio grazie a imprenditori che quel territorio conoscono (o dovrebbero conoscere) meglio delle loro tasche. Se questi imprenditori si fanno ingolosire dal desiderio di partecipare a campionati che non sono i loro, ecco che cominciano i guai. Guai che in fondo negli ultimi anni sono stati rallentati solo dal deflagrare della pandemia e di conseguenza dalla necessità degli italiani di riempirsi le case di prodotti. Ma un secondo dopo che la tragedia mondiale era stata per fortuna archiviata, ecco che alcuni guai sono riemersi con una forza devastante moltiplicata. E recentemente ne abbiamo avuto la conferma. Purtroppo il retail tradizionale patisce il solito vizio di fondo, ossia quello di provare a cambiare solo quando si trova con un piede e mezzo sul precipizio. Siamo convinti che se invece di aspettare a re-agire, provasse ad agire troverebbe ancora spazi di sviluppo. Perché gli imprenditori con una visione non mancano, perché strutture efficienti ci sono, perché i consumatori che ritengono il negozio fisico il loro punto di riferimento restano - nonostante tutto - la maggioranza.