Una cosa è certa: Vladimiro Carminati (nella foto), che ha recentemente concluso la sua carriera professionale nel Gruppo De'Longhi come Country Manager per l'Italia, non usa giri di parole. Dal suo punto di osservazione, e con la consueta chiarezza, parla di pregi e difetti del business che ha lungamente frequentato, e racconta i motivi della sua scelta di vita.
Carminati, quando un manager come lei stacca la spina cosa succede?
“È un cambiamento piuttosto forte, ma se ci si prepara può anche essere piacevole. Bisogna aver coltivato altri interessi, su cui poi dirottare energie mentali e fisiche. Diversamente, il salto potrebbe essere traumatico. Io ho fatto così, ho coltivato interessi e passioni nel poco tempo libero che avevo, adesso posso permettermi il lusso di dedicarmici in libertà. Certo, il salto adrenalinico è forte e non è consigliabile passare direttamente da cento a zero: sarebbe pericoloso per l’equilibrio di chiunque”.
Perché ha deciso di concludere la sua carriera in De’Longhi pochi mesi fa?
“Avrei potuto continuare e, anzi, l’azienda avrebbe gradito, ma ho maturato la convinzione che era il momento di passare il testimone, avendo dato alla professione tutto quello che avevo da dare. L’azienda ha oggi una dimensione multinazionale, una situazione che non sentivo più adatta a me. Dunque con largo anticipo ho pianificato la mia uscita, concordandola con l’azienda già nel 2019. All’inizio non l’hanno presa tanto bene. I motivi della mia scelta sono molteplici: era cambiata la scala di valori, c’erano valutazioni di carattere personale. E c’è anche la consapevolezza, alla mia età, di aver raggiunto una soddisfazione professionale che mi ha sempre spinto a conquistare nuovi obiettivi. E poi faccio parte di una generazione di manager che via via sta lasciando il posto alle nuove leve, ed è giusto: largo ai giovani. Penso che valga la pena di lasciare quando si è in cima alla collina”.
Nuovi manager: secondo lei, sono pronti e preparati per questo mercato?
“È un argomento che affronto con molta cautela e umiltà. Mi esprimo relativamente all’area industriale e distributiva - che conosco molto bene - di una azienda che produce e distribuisce uno o più marchi. Sono convinto che le nuove generazioni possano avere visioni che la mia formazione non mi abilita ad avere. La mia impressione è che attualmente ci sia una sovrastima delle attività necessarie a lavorare bene per sostenere la distribuzione. Mi riferisco al marketing, alla brand image, eccetera, rispetto al valore aggiunto che queste attività - ricche di teorici esercizi di indagini, approfondimenti e consulenze - sono in grado di restituire”.
Le ritiene attività troppo costose rispetto ai risultati che offrono?
“In parte. Sto dicendo che costano tanto tempo, soldi, energia di molte persone e, personalmente, non ho misurato un ritorno almeno pari alle energie profuse. La mia, ripeto, è una impressione che non esclude eventuali sviluppi, che al momento però io non vedo. Il nostro, tutto sommato, è un mercato semplice, attiene al largo consumo, non implica complicati processi d’acquisto da parte del consumatore, tende a ripetersi, sia in termini di offerta che di domanda. Dunque, tutta questa attività di analisi (io sono arrivato a definirla una biopsia medico-legale del mercato) forse non è necessaria, e sottolineo il forse. O almeno si tratta di strategie che andrebbero costruite su condizioni semplici, con approfondimenti e attività più profonde, ma misurabili sul ritorno economico”.
In sintesi, si fanno troppe chiacchiere?
“Volendo semplificare molto la questione, sì”.
Quali sono le aree cruciali del business dell'elettrodomestico?
“Il nodo irrisolto nel nostro settore è che le parti contrapposte, chi produce e chi distribuisce, rimangono tali: contrapposte. Nonostante gli sforzi che si sono fatti in tutti questi anni, nulla o poco è riuscito a scalfire la capacità dei distributori ad ascoltare in modo diverso i fornitori di marca, quelli che fanno il mercato. Permane un atteggiamento conflittuale, anche se ben mascherato da diplomazia e gentilezza. Tutto quello che le aziende, come quella in cui ho lavorato, hanno messo in campo per avvicinare il trade è sempre stato molto difficile da portare avanti. E poi manca la continuità: ogni anno nella distribuzione si comincia da capo tutto, e non si capisce bene dove si voglia andare. Nel frattempo è arrivato l’ecommerce. Ho avuto la possibilità di lavorare direttamente con Amazon nel corso del 2020, e le dico la verità: non è la bestia nera di cui si parla. Se il fornitore riesce a gestirne il rapporto, è un’azienda efficace e ragionevole in termini commerciali per un’industria di marca. Diversamente comanda Amazon. Il presupposto è avere una domanda spontanea, allora si instaura un rapporto alla pari, di collaborazione. Abbiamo fatto insieme cose molto interessanti, quando nella prima parte dell’anno si è lavorato solo con l’online. Collegandomi al discorso di prima, Amazon ha un approccio al business molto semplice. Poi c’è la questione delle applicazioni di intelligenza artificiale, che a volte sono solo “artificiali” e per nulla intelligenti. Nel 2020 il nostro settore ha sostenuto una prova molto forte: i retailer sono stati bravi, la distribuzione in parte ha reagito bene; sono cambiati certi parametri, sono tornati in auge i negozi di prossimità. Insomma, c’è stato un fattore evolutivo moltiplicato per due o per tre. Tuttavia, uscendo dal settore e guardandolo da fuori, vedo la contrapposizione conflittuale irrisolta, mentre è proprio la chiave per la soluzione”.
Un conflitto: perché dopo tanti anni continua a essere irrisolto?
“Io lo spiego così: l’economia di un distributore alloca ad ogni singolo fornitore un ruolo, a prescindere dalla domanda spontanea che genera o dal peso sul mercato. Questo ruolo viene preordinato e gestito in modo rigoroso, cioè nessuno di questi imprenditori offline ti fa crescere più di quanto egli non abbia stabilito, penalizzandoti o favorendoti a seconda delle sue strategie. Penso anche che molti imprenditori dell’offline siano trascinati dagli eventi, nel senso che non governano ma inseguono il mercato. Questo, secondo me, è il problema importante. Mentre Amazon e il web in generale lasciano libero sfogo alla domanda spontanea e non pone limiti alla quantità di prodotti che possono vendere se il consumatore lo chiede. La distribuzione offline invece esercita questa regola ostativa al consumo, un concetto che ho imparato quarant’anni fa. Nei ‘sacri testi’ la distribuzione è definita come “un ostacolo, un imbuto” tra il produttore e il consumatore. Un nodo ancora irrisolto, appunto”.
In una intervista di parecchi anni fa a Bianco & Bruno lei dichiarava che il vero Category management veniva ignorato dalla distribuzione. Secondo lei, è ancora così?
“Confermo. Non si fa category e ci sono stati casi di grandi incompetenze. Category management è un termine con cui molti si sono riempiti la bocca, ma quasi nessuno lo ha applicato seriamente. A volte le aziende - i fornitori - si sostituiscono a questa funzione con varie attività di trade marketing, anche di monitoraggio periodico dei punti vendita, mettendo a disposizione del distributore dati oggettivi e una sorta di category. In realtà pochi comprendono il senso collaborativo e di servizio di queste attività, molti lo interpretano come una intrusione. Dunque, sì: rimango ancora di quell’idea. Invece la strada è quella che passa attraverso la fiducia, convincendosi ad affidare a dei veri category manager la gestione delle categorie, in piena collaborazione con i principali fornitori e brand. Ci arriveranno per forza, prima o poi”.
Ci ricorda cosa significa fare un buon Category management?
“Questa funzione si trova a operare fra due posizioni contrapposte: quella del produttore - o brand - e quella del distributore. Il vero Category management è un compromesso fra le due posizioni: se l’industria pretende di imporre tutta la sua gamma in un punto vendita sbaglia; per contro, se il distributore pretende di fare picking, cioè comprare solo il top seller, altrettanto commette un errore. Dunque servirebbe una mediazione tra le offerte dei produttori e le possibilità dei distributori di trasferire queste offerte al consumo. Bisogna gestire la questione in modo opportuno e intelligente: per l’industria fare offerte che tengano conto dei limiti oggettivi del retailer, e per la distribuzione accogliere il ragionamento di un fornitore, che convive con altri di una stessa categoria, in una misura che abbia un senso: né esagerata, ma neanche limitativa. Sembra una banalità, ma le garantisco che nella stragrande maggioranza dei casi ciò non succede. Spesso si devono gestire volontà di fare solo picking, o una parvenza di compromesso che poi porta ad avere problemi con l’assortimento prestabilito. L’argomento è complesso, per sintetizzare direi che è fondamentale accettare questo principio: il Category management è un compromesso, e come tale ci si incontra a metà strada. Sembra banale” .
Ma se non si riesce a fare, evidentemente non è così banale.
“Appunto. Certo, al ragionamento di base appena fatto bisogna aggiungere tante variabili, dal volantino alla promo, al prezzo. Ma approfitto dell’occasione per dire una cosa che ritengo importante: le attività promozionali, mal gestite, sono nemiche del Category management, e a volte lo compromettono. Scombinano la gamma di un punto vendita, ad esempio esaurendo in un mese le vendite di un prodotto, lasciando la griglia assortimentale in rovina. Resta il fatto fondamentale che servirebbe poter contare su solide basi di assortimento, un category inattaccabile su cui innestare le attività promo e tutto quello che segue”.
Del resto le attività promozionali hanno preso il sopravvento.
“Esatto. Altro che Category, è tutto promo! Solo su questo si basa la difesa dal web. Ancora, dopo tanti anni, non riesco a spiegarmi come si possa fare un lungo periodo promozionale con sottocosto, black friday, sconto 50%, ti regalo tutto, e poi lamentarsi perché nel periodo immediatamente successivo non si vende. A volte penso che si sia perso il senno”.
Oggi il negozio di prossimità ha riacquistato un suo ruolo. Lo manterrà o è un fenomeno del momento?
“Oggi il trade ha una grande opportunità. Il grado di servizio che il consumatore ottiene nelle grandi catene è ai minimi storici. Invece i negozi di prossimità organizzati, non solo hanno raggiunto (in proporzione) livelli di offerta qualitativa e quantitativa molto efficace, ma danno al consumatore un servizio maggiore. Penso che chi manterrà questo tipo di proposta, continuerà ad esercitare una certa attrazione e a ritagliarsi un proprio spazio, che esiste. In nessuna parte del mondo Amazon, sinonimo di ecommerce, ha guadagnato il 100% del mercato. Certo, bisogna essere bravi nella gestione, ed efficienti”.
Allora non sarà Amazon a fare tabula rasa del retail tradizionale…
“Ho sempre detto che le vendite online sono come l’acqua: non si possono fermare e arrivano dappertutto. Se uno vuole combatterle è già morto annegato; bisogna conviverci, nuotarci dentro. Sul web le cose sono cambiate: Amazon ha un grande asset strategico nel servizio, che richiede ingenti investimenti e obbliga a mantenere certi prezzi. Se questo colosso avesse fatto esclusivamente category killing sarebbe già estinto. Anche lui ha cominciato a capire che deve fare un po’ di margine. C’è modo di convivere per tutti, sia online che offline, ma a certe condizioni. A questo punto però mi consenta una ‘frecciatina’: la distribuzione fisica ha avuto tante, troppe risorse da parte dei produttori; è abituata bene, vorrebbe marginare sempre allo stesso modo ma con i prezzi di Amazon. ‘Nun se po’ fà’ , come direbbero a Roma. Bisogna accettare il fatto che i tempi di certe vacche grasse sono finiti”.
Tuttavia c’è sempre qualche fornitore disposto a “dare”.
“A me risulta sempre sempre meno, rispetto a prima. Pensi che qualche anno fa girava questa battuta: ‘La cosa più facile da fare, e che non costa neanche un euro, è aprire un negozio di elettrodomestici. Basta trovare i locali e al resto ci pensano i fornitori’. I tempi sono cambiati e il commercio al dettaglio è un lavoro difficile. Anche per questo la mia considerazione verso i miei clienti non è mai venuta meno”.
Ha definito Amazon ‘ragionevole’: a che cosa alludeva?
“Mi riferivo alle logiche commerciali di base, rispetto a eccessive ricerche e analisi di mercato: inutile a volte vivisezionare il consumatore. Questo grande player ha regole commerciali molto semplici, da manuale, la sua strategia si attiene fondamentalmente a questi criteri che, rispettati, portano già risultati. Nulla di nuovo sotto il sole, e senza troppi fronzoli o elucubrazioni mentali”.
Cosa pensa dell’intelligenza artificiale e dei Big Data, sono la soluzione di tutto?
“Sono strumenti, e come tali vanno usati. Sono indispensabili per gestire attività di dimensioni molto grandi, ma poi si portano dietro una serie di effetti collaterali. Richiedono un team di persone che gestisca e intervenga sulle storture prodotte da questi sistemi intelligenti. Impensabile non servirsene, ma altrettanto non governarli: se li lasci a loro stessi ti portano nel fosso. Del resto l’intelligenza artificiale deve essere impostata dalle persone, c’è una generazione di nuove professioni in questo ambito, giovani di grandi capacità”.
Per anni lei ha rivestito anche un incarico associativo in seno a quella che oggi è APPLia Italia. Cosa pensa di questa forma di collaborazione tra industrie?
“Ho un giudizio e un ricordo molto positivi di queste attività, me ne sono occupato per molto tempo. Come spesso accade, le persone fanno la differenza; APPLia Italia che fa parte di un network europeo, nel 2020 è stata accreditata come socio diretto di Confindustria. Il che cambia le cose, avrà maggior voce in capitolo nella gestione di problematiche precompetitive, come la normativa RAEE che attribuisce al produttore la responsabilità totale. APPLia conta su un buon gruppo di persone e un buon direttore generale, le persone che si sono succedute alla presidenza negli ultimi anni, come Manuela (Soffientini ndr), hanno lavorato bene, lo dimostrano i risultati. Penso che il meglio debba ancora venire”.
E da manager dell’industria vede le associazioni dei consumatori come un valore o un problema?
“E’ un bene che ci siano, ma secondo me sono molte le cose su cui dovrebbero lavorare. Ad esempio, ancora oggi i consumatori non sono consapevoli di alcuni loro diritti, informare dovrebbe essere al centro dell’attività di queste associazioni. Da uno che ha sempre lavorato nell’industria, l’affermazione può sembrare strana, in realtà le aziende serie, come De’Longhi e molte altre, offrono al consumatore il massimo delle assicurazioni e delle garanzie. Il recente fenomeno di un grande costruttore di aspirapolvere ricaricabili, per esempio, aveva lasciato in ombra che su questi prodotti veniva dato un anno di garanzia legale, mentre la legge impone due. Per un’azienda dimezzare il costo economico della garanzia da due a un anno, non è male. Penso che i consumatori debbano sapere queste cose; su certi prodotti ci sono ancora irregolarità, circolano dichiarazioni non corrette sulle prestazioni. Credo che le associazioni dei consumatori dovrebbero focalizzarsi su queste cose: diritti, informazione, dichiarazioni irregolari o fuorvianti e così via”.
Per finire, quale consiglio vuole dare a chi deve gestire questo business?
“Quello che mi sento di dire ai colleghi dell’industria è di difendere il valore ad ogni costo, dicendo dei no, anche se è molto più facile dire sempre di sì. Bisogna dire dei no perché è un dovere difendere il proprio valore, quello dei propri prodotti, dei propri brand, dei propri gruppi di lavoro, e della propria azienda. Quindi difendere il valore e, mi conceda, difendere sempre l’EBITDA (il margine operativo lordo di una azienda, ndr). Possiamo discutere quanto volete, ma è quello che conta”.